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La via crucis di ognigiorno: il carcere

Venerdì 18 aprile, dalle 18 ne discutiamo con Charlie Barnao.

Parlare di carcere in Sicilia significa rompere una separazione che è innanzitutto interiore (e interiorizzata): quelle mura non nascondono alla vista solo i corpi dei nostri simili, nascondono a noi stessi la coscienza della nostra storia collettiva. La presenza del carcere per molti/e siciliani/e, e meridionali e per i poveri di ogni dove, è una costante che puntella tanto i momenti di “pace sociale” quanto quelli di conflittualità. Se la finzione riesce a giustificare il “carcere duro ma giusto” perché contro i mafiosi, è perché recide i legami tra storia e memoria. Così, non ricordiamo che quello che siamo oggi affonda le sue radici nel forte di Fenestrelle, dove vennero deportati e morirono migliaia di cosiddetti briganti e nemici interni meridionali, razzistizzati e torturati. Ieri i briganti, oggi i mafiosi, il carcere di guerra rimane a monito per tutti/e. E funziona: è la paura del carcere che fa accettare paghe da 3 euro l’ora; che fa emigrare senza colpo ferire; che scoraggia la partenza di quelle lotte di cui c’è sempre più urgente bisogno.
Ecco perché parlare di un parente così scomodo, perché la parola con la sua scintilla rischiari la possibilità della coscienza e dell’azione conseguente.