Al centro del margine: su un progetto di spazio a Polizzi Generosa.
La provincia è quel luogo psicogeografico in cui è difficile non provare di tanto in tanto una sensazione di schiacciamento (anche se noi ci sentiamo più schiacciati in città). Lo spopolamento di giovani, il fatalismo rispetto alle condizioni date, un’apparente immobilità, sono dati di fatto che a volte hanno la consistenza del muro che ti cade addosso. Eppure, nei paesi, vi è anche una complessità di controstorie che circolano sotto pelle. È la memoria non sopita di un modo di abitare il mondo che è stato sconfitto dalla modernità tecnoindustriale e che può rappresentare, dipende dall’uso che se ne fa, un’alterità rispetto ad essa: uno spiraglio d’aria, nella stanza perennemente chiusa di un esistente totalitario e guerresco. Non è certo un ritorno all’idillio del passato quello che ci auguriamo, intanto perché non pensiamo sia mai esistito un passato fatto così – a volere dir meglio: è esistito mille volte e nessuna, in un continuo ciclo di distruzione e ri-creazione, di avanzamento e arretramento, armi in pugno e sogni in corpo, della libertà – e poi perché non vogliamo certo costruire macchine (ideologiche) del tempo. Nel mondo diviso a blocchi – da un lato la Modernità, dall’altro la Tradizione – non c’è spazio per i desideri degli umani in carne ed ossa. Ovunque si stia, per vivere, occorre fare delle rotture: non emigrare, per tutti i siciliani e a maggior ragione per chi è nato in montagna, è già una di queste. Aprire uno spazio è per noi, in questo momento, un’esigenza come respirare, un bisogno tanto intimo quanto dell’ambiente umano che ci circonda. Uno spazio, quindi, per tentare di smontare le immagini che i dominanti creano di noi e del futuro dei territori, e provare a liberare la terra, e i nostri territori interiori, dalla monocultura del profitto, dello sfruttamento e dello spettacolo.
Lo spazio ècostruito intorno a un laboratorio con gli attrezzi che abbiamo accumulato negli anni per la costruzione/creazione/riparazione di manufatti vari (levigatrice, pialla, saldatrice, trapano, flex etc..), quindi potremmo dire qualcosa tra il faidateartigianatoartismo; sarà allestita anche una piccola biblioteca di critica sociale (anarchica e non, ma pure di libri belli e basta) -col progetto di costruire anche un centro-studi territoriali.
Attorno a questo nucleo centrale, che costituirà l’ossatura quotidiana, con un’apertura settimanale il venerdì pomeriggio, vorremmo proporre iniziative di vario tipo (presentazioni di libri e realtà amiche, discussioni, concerti, tutto ciò che la fantasia e le esigenze sia materiali che non, ci suggeriranno).
E’ un posto abitabile, con una cucina piccola ma funzionale in allestimento e una stufa a legna per gli inverni (che non ci sono più).
Chi c’è con noi
Non siamo soli. A parte amiche e amici di qui ci sono due gruppi di persone che seguono le vicende dello spazio: sono amici emigrati, pezzi di cuore che vivono la situazione ambigua del non esserci e dell’esserci ancora (sappiamo per esperienza il labirinto di doppiezze che questa condizione si porta appresso); una simile ambiguità investe anche il territorio da cui si emigra: chi rimane mai chiederebbe di tornare, mai si dimentica di chi è partito. Per questi amici, ma anche per noi, lo spazio può essere, tra le (tante) altre cose, il luogo e il modo in cui rendere affrontabile la questione dell’emigrazione, dei suoi impatti psicologici e sociali tanto importanti quanto rimossi.
L’altro gruppo è fatto di amici e compagni, sparsi da sud a nord, che ci hanno sempre offerto il loro sostegno e verso cui nutriamo una totale fiducia.
Vorremmo, quindi, il laboratorio, un interregno di relazioni diplomatiche tra “liberi e diversi” – paesani e urbani, meridionali e settentrionali- in un orizzonte concreto di parità e in uno ideale di tensione verso una vita degna di essere chiamata tale; questa cosa avrebbe immediatamente una ricaduta positiva su chi, vivendo qui, è oppresso dalla sensazione di chiusura tipica dei paesi che si spopolano (di giovani soprattutto).
Appuntamenti fissi e curiosità
Ci saranno due assemblee di autogestione al mese: il primo e il terzo venerdì di ogni mese. Perché non vogliamo fare il circolino di amici, la chiarezza non è mai troppa, e vogliamo dare corpo all’intenzione che il posto sia autogestito ma prima di tutto abitato.
Un’altra occasione di socialità, utile anche per l’autofinanziamento, sarà la cena sociale mensile, questa invece a data variabile che comunicheremo di volta in volta.
Il nome del tutto sarà “Alavò- Laboratorio per l’autogestione”
Le ragioni del nome
La ninna-nanna si indica in tutta la Sicilia col termine vo’, abbreviazione di “voga” e “fa la voga”: l’idea della culla suscita spontaneamente quella della barca e anche quando il bambino è tenuto in braccio, il gesto della voga viene mimato col portare le spalle in avanti per poi tornare indietro, dondolando.
Non solo nelle ninne nanne, nelle alavo’, anche negli indovinelli e nei canti d’amore del popolo siciliano, il mare, le sirene, le onde, hanno un posto di rilievo.
La Sicilia stessa può essere vista come una culla, a volte dondolata dolcemente, a volte strattonata dagli elementi naturali.
“Aiu na varca vistuta di biancu,
Ca camina senz’acqua e senza vientu:
L’armali ca sta fora va cantannu
L’armali ca sta dintra va ririennu”
(Ho una barca vestita di bianco,/ che cammina senza acqua e senza vento:/ l’animale che sta fuori canta/ l’animale che sta dentro ride.)
Questo indovinello ha innumerevoli varianti per tutta la Sicilia, dai paesi e città delle coste fino all’entroterra, dove il mare arriva a prescindere dalla distanza in chilometri, circondo simbolico e strutturale dell’isola in quanto tale.
Attraverso naca (culla), da cui i verbi annacare (cullare) e annacarsi (darsi da fare, muoversi), la lingua siciliana ci ricorda come in ogni rapporto la stessa tensione alla protezione può diventare rischio di stasi.
Naca, annacare, da un lato richiamano la relazione madre-figlio, con l’asimmetria naturale che è base sia per il dispiegarsi della potenza amorosa che del dominio incontrastato. Dall’altro,“annacarsi” è quello che deve fare ogni figlio fatto uomo, ogni figlia fatta donna, per dimenticare e al contempo onorare la promessa implicita della naca.
Senza culla la vita, fragile perché appena generata, è continuamente esposta al rischio della morte;
parimenti, perché si dispieghino esistenze piene, la vita non può accontentarsi di un movimento senza senso, e qui ci viene in aiuto l’uso quotidiano di annacarsi che diventa esortazione a muoversi con urgenza.
Come il bisogno di protezione, anche l’urgenza può esserci sia amica che nemica: dipende se essa ci viene suggerita da un meccanismo che non controlliamo noi o se suona all’unisono con la nostra esigenza di emancipazione.
Alavò, quindi, come canto materno che ci rassicura sulla soglia dello sconosciuto che ci portiamo dentro, come invito al sogno collettivo che è proprio del sonno dei bambini.
Che il nostro “annacarsi” possieda ed emani il senso di cura della culla, l’avventura rischiosa a orizzonte aperto del mare e ci conduca verso luoghi inesplorati dell’esperienza.
Dove ci troviamo
Siamo appena fuori Polizzi Generosa (direzione Castellana Sicula), in via Duca Lancia di Brolo, poco prima del Cimitero