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Contro il fatalismo

Un ciclo di incontri fuori luogo su colonizzazione e decolonizzazione ad Alavò

Non è facile cogliere i tratti salienti che caratterizzano le culture popolari ed è molto difficile farlo con la cultura in cui si è immersi, in particolare. Ci vuole uno sguardo “dal di fuori” o, meglio ancora, un varco aperto che faccia passare “il fuori” a dare un’occhiata dentro. Nella storia, le condizioni in cui questo “passaggio di sguardi” è avvenuto sono state, per la Sicilia e molti altri meridioni, le conquiste e le emigrazioni. “Dominazione normanna”, “dominazione romana”, “dominazione borbonica”, “dominazione piemontese”: così abbiamo chiamato tutte le volte in cui quel varco è stato spalancato a suon di botte e maniere militari, l’unico modo per reprimere una popolazione riottosa. Ad ogni passaggio, la classe occupante ha lasciato qualcosa del suo modo di vedere, delle sue parole etniche; un tipico modo di concepire la gestione del potere e i suoi incantesimi; nella migliore delle ipotesi, una cultura ingegneristica dell’acqua e la filosofia naturalistica e pratica del “giardino” (jardinu): nella maggior parte di questi casi, comunque, la luce che è entrata nella stanza non era amichevole così come non lo era l’intenzione dell’avventore.

La seconda condizione, l’emigrazione, è imparentata alla prima: la terra diventa ostile per i propri figli, per milioni non ci sono le condizioni per stare. Dall’unificazione di Italia, tre macro-ondate di emigrazione spolpano la Sicilia dei suoi giovani, in corrispondenza con le sconfitte di lotte sociali epocali: la prima, dopo le mobilitazioni dei fasci dei lavoratori; la seconda, dopo la sconfitta del movimento bracciantile e contadino del secondo dopo-guerra. La terza ondata sta avvenendo ora, per la sconfitta delle lotte che perdiamo perché rinunciamo ancora prima di cominciare a combatterle.

Perché? com’è possibile? Proviamo a metterla giù così: chiamiamo colonizzazione quel processo a causa del quale qualcosa dello sguardo di chi ci vuole male entra dentro il nostro. Da quel momento in poi chi vuole schiavi può contare su un guardiano infallibile: quello interiore. Lo sguardo del dominato non solo non si distingue da quello del dominatore ma lo glorifica, i dominati tutti sono come sotto l’effetto di un incantesimo.

“Munnu iè e munnu sarà” è un modo di dire che ricorre spesso, ha il suono e il tanfo della sepoltura (del possibile e delle possibilità): nulla può cambiare, dice il vecchio al giovane per farlo invecchiare prima del tempo. Eppure, sepolte nel nostro passato e nel nostro presente ci sono varie possibilità, quella di una vita dignitosa e felice, per esempio; in cui la lotta, la solidarietà dei poveri e le nostre sconfitte non sono cose di cui vergognarsi, sono il passato da cui partire per riprovare.

Un ciclo di incontri, quindi, per decolonizzare i nostri occhi e disseppellire le armi del possibile. A partire da una riappropriazione del nostro passato, passando per una socializzazione critica dell’esperienza indicibile, solitaria e di massa dell’emigrazione, per approdare alle nocività e alle catene (più o meno visibili) che ci stringono i polsi oggi.

17 Luglio, dalle 18.00 – Ora ti cuntu 

I cunti sono ancora vivi?
Per scoprirlo bisogna che incontrino occhi, mani, orecchie, voci: un pomeriggio per lasciare emergere dai nostri corpi, che sono il fondo ignorato della memoria, i cunti della cultura popolare contadina, dissotterrare questa appartenenza senza vergogna, senza gli indici puntati del progresso e dell’arretratezza, riscoprendoci capaci di stupore e meraviglia, adulti e bambini insieme.
Perchè ogni passo nuovo contiene tutti quelli che lo hanno preceduto.
Con la partecipazione di “cuntisti” madoniti in carovana dalle montagne al mare

28 luglio, dalle 18.00 – Riappropriamoci del passato. Confronto a più voci sul “nostro” mondo contadino

Riappropriamoci del passato. Confronto a più voci sul “nostro” mondo contadino
Quale è il nostro rapporto col passato? Da cosa dipende? Quali sono e da dove vengono le immagini e le parole che ci condizionano nel pensiero delle cose passate, della vita passata?
Un confronto a più voci per scoprire se tutto quello che ci è stato raccontato del mondo contadino coincide o confligge con la memoria diretta che ne hanno le persone che lo hanno vissuto e che  hanno attraversato il cambiamento da questo alla società dei consumi.
“Tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”

11 agosto, dalle 18.00 – Rimuovere il rimosso: riflessioni sull’emigrazione

Parlare di emigrazione è quanto meno delicato. Difficile scindere la dimensione interiore di chi parte da quella collettiva del contesto lasciato; difficile distinguere quanto incida il desiderio di cambiamento e quanto la povertà di opportunità (a parte quella di essere sfruttati). Intanto, schiacciati tra retoriche progressiste e l’impossibilità a parlarne, in migliaia si continua a partire. Ne parliamo con amiche e amici emigrati ai Nord

24 agosto, dalle 18.00 – Il turismo è la nostra ultima spiaggia?

Il turismo è creatura strana, al contempo costruzione mitica e ristrutturazione industriale in atto. Per molti Sud esso viene sventolato come l’unica carota possibile, a fronte dei molti bastoni (territori discarica, territori carcere, territori militari), e questo lo ammanta di un aurea di non-criticabilità. E infatti non si discute dei suoi effetti e fondamenti sociali, da quelli materiali come ristrutturazione urbana con telecamere dappertutto, lavoro nero e salari bassissimi, aumento dei prezzi, sciupio di acqua e aumento dell’immondizia; a quelli immateriali: la banalizzazione culturale dei luoghi da parte del marketing territorial e intere popolazioni che si percepiscono “a servizio”, ad esempio.

Ne parliamo con alcuni redattori della rivista salentina “Zulù” e della rivista siciliana “Scorci”

6 settembre, dalle 18.00 – L’energia persa: cosa vuol dire transizione energetica a sud

Nella Sicilia delle strade disastrate e degli ospedali che chiudono, insieme al comparto militare, c’è un altro settore in crescita permanente, quello della energia green. Con un volume di affari di 12 mld di euro, per realizzare il progetto per un Sud “hub energetico d’Europa”, si costruiscono strade, si espiantano ulivi secolari, si dilaniano colline: la chiamano transizione ecologica. Solo un terzo dell’energia rimarra nell’isola, il resto servirà per il sistema tecnoindustriale del Nord, e verrà trasferita grazie al Tyrreniann Link, un elettrodotto marino che collegherà Sardegna, Sicilia e Campania.
Un altro modo per definire la condizione del colonizzato è questo: l’essere costretto a dovere scegliere tra alternative ugualmente infernali. Per molti giovani siciliani non di belle speranze il bivio fondamentale è, infatti, emigrare o collaborare da salariato alla distruzione della propria terra. Qualsiasi sia la “scelta”, il risultato sarà una frattura interiore che nessuno stipendio potrà riparare. Altrove, come in Sardegna, succede dell’altro, contadini e abitanti si organizzano autonomamente per impedire che lo scempio continui. Ne parliamo con alcuni sardi coinvolti nella lotta contro il Tyrrhenian Link nell’agro del Selargius